Il patto di non concorrenza del lavoratore

L’avvocato del lavoro viene spesso interpellato da aziende e lavoratori in merito alla legittimità ed efficacia del patto di non concorrenza inserito nel contratto di lavoro.

Nella sua formulazione, il patto di non concorrenza è sostanzialmente semplice: si prevede che il lavoratore, a richiesta dell’azienda, si astenga, una volta risolto il rapporto, dall’accettare offerte di impiego da aziende concorrenti dell’ex datore di lavoro, e ciò a fronte di una quota di denaro spesso pagata, in corso di rapporto, in aggiunta alla retribuzione. La rottura del patto da parte del dipendente comporta a suo carico il pagamento di una penale spesso elevata.

Nelle sue linee essenziali il patto di non concorrenza appare dunque semplice, ma così non è, una volta che ci si chieda, ad esempio, se sia ammissibile assegnare all’azienda un’opzione a valersi del patto (cioè se l’azienda possa riservarsi di decidere in un secondo momento se far valere o meno il patto al quale il lavoratore si è già obbligato) o se sia possibile consentire all’azienda di rinunciare a valersi del patto senza quindi corrispondere la contropartita economica stabilita a favore del lavoratore.

Vedremo questi aspetti atipici in un secondo momento, essendo invece corretto iniziare dalle linee essenziali.

E’ chiaro che, dal punto di vista dell’azienda, il patto di non concorrenza mira a “salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione, presso imprese concorrenti, del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica e amministrativa, metodi e processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, etc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti” (Cass. n. 24662/2014). Scopo del patto è quindi quello di tutelare il capitale dell’azienda, inteso questo non nei beni concreti quanto nel know how ed in tutti gli elementi (organizzazione, metodi, processi di lavoro, clientela) che costituiscono la forza e gli sbocchi dell’impresa.

A titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza il lavoratore si vede assegnare una quota in denaro, durante il rapporto o al termine di esso, ratealmente o in unica soluzione. Peraltro, il dipendente valuta dapprima positivamente il patto di non concorrenza per il surplus di denaro che gli viene assegnato oltre la retribuzione ordinaria ma, successivamente, può considerare quel patto come una limitazione alla sua possibilità di sfruttare al meglio le capacità professionali acquisite nell’impresa, allorché ha la possibilità di spostarsi in aziende concorrenti o ritiene di fondare una propria struttura basata sulle conoscenze acquisite e l’esperienza accumulata. Tipiche domande del dipendente all’avvocato del lavoro sono quindi: “Posso accettare l’offerta di lavoro di un’azienda concorrente del mio datore di lavoro che mi offre condizioni economiche migliori e una migliore posizione? Il patto è veramente vincolante? In che modo lo si può aggirare? Si può negoziare?”

L’azienda, per parte sua, chiede in genere con forza il rispetto del patto salvo ritenere, alla scadenza del rapporto, che quel lavoratore non costituisca un pericolo e, in tal caso, chiede come liberarsi dal patto, se cioè sia possibile, a sua discrezione, recedere e porlo nel nulla senza esporsi al corrispettivo.

Prima di rispondere, vediamo più da vicino in cosa consiste il patto di non concorrenza. Con riferimento ad un rapporto di lavoro in corso, viene in considerazione l’articolo 2105 del codice civile che, intitolato all’obbligo di fedeltà, dispone che “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. L’articolo è importante in quanto, da un lato, sancisce come obbligo generale e non soggetto a contropartite economiche il fatto che, in corso di rapporto, il dipendente non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’azienda sua datrice di lavoro: da altro lato, chiarisce cosa debba intendersi per concorrenza, specificando che essa va vista come l’utilizzo o la divulgazione, sempre per interesse personale, di notizie attinenti l'organizzazione e i metodi di produzione dell'impresa, cioè il suo know how inteso questo come l’insieme di elementi sui quali si fonda la capacità dell’impresa di occupare un posto sul mercato.

Se quindi il patto di non concorrenza è, in corso di rapporto, talmente ovvio da non richiedere una contropartita e da avere carattere ed estensione generale, altro è quel patto allorché il rapporto con l’azienda con la quale ci si è vincolati viene a cessare.

Soccorre in questo caso il disposto dell’articolo 2125 del codice civile, che indica che: “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.

Va quindi premesso anzitutto l’oggetto del patto di non concorrenza: come detto, esso si rivolge a qualunque attività, autonoma o subordinata, che il lavoratore intenda svolgere per imprese operanti nello stesso settore produttivo o commerciale dell’ex datore di lavoro, sia eseguendo in esse le stesse mansioni ricoperte in precedenza, sia operando in altre attività che si presentino comunque in concorrenza con quelle del precedente datore, potendo in esse riversare dati e conoscenze specifiche che concorrono a formare il capitale del precedente datore di lavoro e della sua impresa. Ovviamente, l’ampiezza del patto non può però pregiudicare il diritto al lavoro costituzionalmente garantito e pertanto il confine imposto al lavoratore trova un limite nella eccessiva ampiezza o genericità del vincolo, che non dev’essere cioè tale da impedire del tutto al lavoratore di esplicare un’attività adeguata e conforme alla sua preparazione professionale.

Fermo dunque l’oggetto del patto, vediamone i requisiti indicati dalla norma.

Risulta che il patto di non concorrenza sia valido ed efficace allorché venga stipulato: a) in forma scritta; b) per una durata determinata non superiore a tre o cinque anni; c) in relazione ad una ben definita estensione territoriale e, d) a fronte di un corrispettivo a favore del lavoratore.

Ora, se la forma scritta (necessaria all’esistenza stessa del patto) e la durata (purché sia specificamente indicata) non destano particolari difficoltà interpretative, molta maggior attenzione deve essere invece rivolta alla estensione territoriale del vincolo ed al suo corrispettivo, oltre che agli elementi accessori ai quali abbiamo accennato sopra quali, ad esempio, l’opzione che il datore di lavoro riservi a sé di svincolarsi dal patto o la rinuncia al patto stesso.

L’estensione territoriale del patto di non concorrenza deve contemperare due diverse ed opposte esigenze e cioè quella dell’azienda di “assicurarsi” da ingerenze nel territorio ove esplica la sua attività e quella del lavoratore di avere accesso ad opportunità di lavoro a lui confacenti. Non esiste una regola generale, non vi è cioè un territorio predeterminato in relazione alle specifiche attività aziendali: è la Giurisprudenza, di volta in volta ed allorché chiamata a discernere, a stabilire la ragionevolezza della limitazione imposta al lavoratore in relazione alle mansioni da questi precedentemente svolte. Così, in relazione all’area di pertinenza dell’azienda, è stata ritenuta consona una norma che vincolava l’ex dipendente a non porsi in concorrenza sull’intero territorio italiano, così come quel limite territoriale è stato ritenuto valido ed efficace addirittura allorché riferito all’intero territorio europeo. Il discrimine è da ravvisare, come da altri detto, in una “estensione delimitata e congrua” e cioè tale da garantire sì l’azienda, ma anche da non compromettere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne pregiudichino ogni potenzialità reddituale.

Non sussistono regole precise neppure per quanto riguarda il corrispettivo del patto di non concorrenza. Principio certo in Giurisprudenza è quello che il compenso del vincolo imposto al lavoratore non possa essere né simbolico, né sproporzionato al sacrificio che gli viene imposto e cioè la limitazione alle sue possibilità di guadagno. Certa Giurisprudenza ha indicato una adeguatezza del corrispettivo se calcolato nel 20-30% della ral (retribuzione annua lorda), ma è chiaro che detta percentuale sia destinata a diversa valutazione in rapporto a quanto maggiore sia la limitazione, territoriale od operativa, imposta al dipendente.

Quanto alle modalità di corresponsione, la somma può essere corrisposta ratealmente, in unica soluzione, in forma fissa o percentuale, con il limite che sia previsto un minimo garantito e che l’importo corrisposto sia determinato o almeno determinabile a priori.

Peraltro, non vi è una regola certa neppure in merito al momento nel quale il corrispettivo debba venir versato: è quindi possibile che il patto preveda un pagamento da corrispondere unitamente alla retribuzione nel corso del rapporto, così come ratealmente o in unica soluzione alla sua cessazione. Sul punto va però rilevato un orientamento giurisprudenziale sfavorevole alla legittimità di un corrispettivo pagato mensilmente nel corso del rapporto di lavoro e ciò in quanto l’entità del corrispettivo non risulterebbe preventivabile a priori ma risulterebbe indeterminata: se il rapporto avesse lunga durata, il corrispettivo, forzatamente indeterminabile, finirebbe per remunerare più la “fedeltà” del lavoratore che non il sacrificio; al contrario, se il rapporto avesse breve durata, il corrispettivo sarebbe altrettanto indeterminato ma, soprattutto, potrebbe essere certamente inadeguato alle limitazioni imposte al lavoratore a fine contratto: potenzialmente, l’azienda potrebbe concordare il patto di non concorrenza al momento della stipulazione del contratto di lavoro per poi licenziare a breve il dipendente, vincolandolo a magari anni di non concorrenza a fronte dell’esborso di un corrispettivo minimale.

Sembra però al momento prevalere una giurisprudenza che ammette il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza in corso di rapporto, purché ne sia determinato o determinabile l’importo e questo venga pagato a prescindere dalla durata effettiva del rapporto. Resterebbe quindi consolidato il principio che il patto di non concorrenza possa essere legato alla durata del contratto di lavoro purché ne sia fissato quantomeno un minimo garantito che soddisfi il canone della congruità fra sacrificio e suo corrispettivo.

Sinteticamente, si può quindi riassumere indicando che “il patto di non concorrenza deve determinare in modo specifico i limiti di oggetto, di tempo e di luogo a cui il lavoratore è sottoposto, e deve completarsi con l’indicazione di un corrispettivo congruo tenuto conto del sacrificio risultante dal patto medesimo: oggetto, tempo e luogo costituiscono requisiti essenziali e imprescindibili di validità del patto” (Trib. Milano, sentenza 118920219).

Se le indicazioni finora esposte riguardano una informazione generale sul patto di non concorrenza, occorre aggiungere qualche notazione specifica in ordine alla violazione del patto da parte del lavoratore e in ordine ai casi di nullità.

Quanto al primo punto, l’accertata violazione, da parte dell’ex dipendente, del patto di non concorrenza lo espone sicuramente alla restituzione di quanto percepito in virtù di esso, oltre al maggior danno che l’azienda dovesse provare di avere subito dal comportamento concorrenziale, fatto salvo il caso della esistenza di una penale compensativa della violazione.

Quanto ai casi di nullità del patto, fermi quelli inerenti la fissazione di una durata maggiore di quella prevista dalla norma o di un corrispettivo obiettivamente inidoneo a compensare il sacrificio del lavoratore, come ancora quelli relativi ad una estensione territoriale o a limitazioni tali da non consentire all’ex dipendente di svolgere un’attività comunque consona alla sua preparazione e in un ambito territoriale accessibile, vale senz’altro la pena considerare il caso dell’opzione che l’azienda riservi a sé di valersi del patto di non concorrenza o della clausola che consenta all’azienda di rinunciare autoritativamente al patto, e ciò sia in corso di contratto che successivamente alla sua risoluzione.

Di fatto, la Giurisprudenza indica che gli obblighi inerenti il patto di non concorrenza, che anzitutto ha natura contrattuale, si cristallizzano al momento della sottoscrizione dello stesso, così vincolando il lavoratore ed impedendogli di programmare un diverso futuro lavorativo e quindi comprimendo la sua libertà. Pertanto, l’assegnazione al datore di lavoro della facoltà di risolvere a sua discrezione il patto di non concorrenza rinunciandovi nel corso del contratto “concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative” (Cass, 237232021) trattandosi di un recesso unilaterale, come tale illegittimo.

Diverso in parte è il caso in cui l’azienda si riservi, previa dazione di un corrispettivo, l’opzione di far valere o meno il patto di non concorrenza alla cessazione del contratto, clausola questa abbastanza diffusa nella prassi ed intesa a far sì che il patto produca effetto solo a seguito dell’eventuale decisione in tal senso della parte datoriale, da far pervenire al dipendente entro un termine prefissato dalla fine del rapporto.

Per quanto sul punto sussistano ancora orientamenti opposti, sembra oggi prevalere quello che vorrebbe che l’assegnazione al datore di un potere da esercitare sua sponte in un momento contemporaneo o successivo alla risoluzione del rapporto, costituisca comunque una illegittima compressione delle scelte lavorative assunte dal dipendente fin dall’inizio del rapporto, destinata come tale ad una dichiarazione di nullità. A tale impostazione fa da contraltare quella di segno opposto che vede nel mancato esercizio dell’opzione da parte del datore di lavoro il venir meno di ogni obbligo fra le Parti, con conseguente inesistenza di diritti di sorta in capo all’ex dipendente: venendo meno l’opzione si avrebbe l’inefficacia del patto di non concorrenza.

Dati i limiti puramente divulgativi di questa trattazione non si ritiene di proseguire in dissertazioni sui singoli casi e sulle specifiche e spesso contrastanti disposizioni di giudici di merito e di legittimità: resta pertanto forse solo di suggerire ad aziende e lavoratori di dubitare di modelli predefiniti di clausole di non concorrenza ma di preferire, di volta in volta, l’opportuna richiesta di consulenza “a chi di mestiere”.

Approfondimento a cura di Roberto Sparpaglione.

Per maggiori informazioni sull'argomento è possibile contattarlo direttamente all'indirizzo roberto@sparpaglione.it

Chiedi all’Avvocato…

Scrivi il tuo commento all’articolo, il nostro consulente legale ti risponderà entro 24h lavorative.