La trattenuta in busta paga per il danno prodotto dal dipendente.

Certamente il fatto che il lavoratore, prestando la sua attività, possa recare un danno ai beni aziendali è una eventualità ricorrente nei rapporti lavorativi. E’ ovvio che il danno vada risarcito, così com’è ovvio che la fonte primaria del risarcimento finisca per essere la retribuzione del lavoratore. Ci si chiede quindi se il datore di lavoro possa autonomamente recuperare il corrispettivo del danno che ha subìto trattenendolo dalla busta paga del suo dipendente e se possa farlo senza limiti o se, ci siano condizioni specifiche che devono regolare l’azione del datore.

Anzitutto occorre quindi premettere che il danno può essere addebitato al lavoratore solo quando questi ne sia direttamente responsabile e cioè quando egli abbia violato le regole di diligenza e correttezza nello svolgimento della prestazione lavorativa previste dagli articoli 1175, 2104 e 2105 del codice civile. Nessun danno potrà quindi essere addebitato per oggetti, strumenti o macchine i cui guasti derivino da rotture o malfunzionamenti dovuti alla loro usura o ad altra causa indipendente da mancanze o dalla colpa del dipendente.

Un primo requisito per poter procedere al recupero di quanto speso per danni consiste quindi nel fatto che il datore di lavoro dimostri la responsabilità del suo dipendente. E’ perciò buona norma che il datore di lavoro contesti tempestivamente per iscritto al lavoratore la sua manchevolezza e che gli indichi con esattezza l’entità del danno subìto: questo perché, com’è ovvio, il lavoratore ha tutti i diritti di negare sia la propria colpevolezza che il valore di quanto richiestogli.

E’ perciò escluso che il datore di lavoro possa procedere autonomamente ed automaticamente a prelevare, da quanto dovuto al dipendente per retribuzioni, la parte corrispondente al valore risarcitorio di ciò che è stato danneggiato.

Al contrario, qualora non vi sia, da parte del lavoratore, il riconoscimento del valore del danno, ovvero quando le Parti non raggiungano un accordo sull’entità di esso e sulle modalità di rimborso, il datore di lavoro, per poter procedere al recupero di quanto speso per le riparazioni, dovrà necessariamente promuovere una causa affinché sia il Giudice, nel contraddittorio fra le Parti, a stabilire se vi sia davvero colpa del lavoratore e quale sia l’esatta entità del danno da lui procurato.

E’ quanto si esprime dicendo che il credito del datore di lavoro deve essere “certo, liquido ed esigibile” e cioè non autostimato ma determinato da un Giudice nella sua esistenza, entità e riferibilità a quel dipendente, proprio perché quest’ultimo potrebbe contestare tanto l’entità quanto la stessa responsabilità del danno che gli viene addebitato.

In secondo luogo, occorre verificare se e quale sia la forma per poter procedere alla domanda di risarcimento. In linea di massima non è richiesto che il datore di lavoro svolga una specifica contestazione disciplinare formale al suo dipendente posto che, al di là della loro interdipendenza fattuale, una cosa è il comportamento in sé non diligente del lavoratore ed altra cosa è il danno economico che quel comportamento potrebbe aver procurato. Così stando le cose, il datore di lavoro potrebbe rivolgersi al Giudice per l’accertamento della responsabilità e la determinazione dell’importo del danno senza dover previamente dare corso alla precisa procedura disciplinare prevista dallo Statuto dei Lavoratori.

Sul punto, però, occorre verificare se non sia il Contratto Collettivo applicato nell’azienda ad imporre al datore di lavoro, quale condizione per poter procedere al recupero del dovuto, di contestare il comportamento colpevole del lavoratore aprendo il procedimento disciplinare previsto dall’articolo 7 della Legge 30070, assegnando cioè al dipendente il termine per produrre le sue giustificazioni ed applicando poi, se così riterrà, la sanzione disciplinare scelta, secondo la gravità del caso, fra quelle previste dal Contratto Collettivo applicato.

E’ quanto regolato, ad esempio, dal Contratto Collettivo Logistica, Trasporto Merci e Spedizioni ove, all’articolo 32, destinato ai provvedimenti disciplinari, si prevede che “L’impresa che intenda chiedere il risarcimento dei danni al lavoratore deve preventivamente adottare almeno il provvedimento disciplinare del rimprovero scritto, specificando l’entità del danno”.

Ciò apre appunto la porta alla procedura disciplinare tipica, posto che il medesimo articolo specifica che “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore più grave del rimprovero verbale senza avergli preventivamente e per iscritto contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.”

Sostanzialmente dello stesso tenore è il CCNL Chimici, che all’articolo 18 indica che “I danni che comportino trattenute per risarcimento devono essere contestati al lavoratore non appena l'impresa ne sia venuta a conoscenza”.

Nell’incertezza quindi sulla esatta procedura da seguire, riteniamo sia buona norma per il datore di lavoro procedere formalmente con la contestazione specifica del fatto, indicando il nesso di causalità – e cioè la responsabilità del lavoratore per quanto accaduto – e l’entità del danno procurato, invitando infine il lavoratore a fornire le sue eventuali giustificazioni.

Infine, si tratta di vedere come avviene operativamente il risarcimento del danno e cioè se e quanto il datore di lavoro possa trattenere dall’importo dovuto per retribuzioni.

Nella sostanza, così come nel diritto, il fatto che il datore di lavoro trattenga dallo stipendio o dal TFR del dipendente la somma corrispondente al danno subìto ha la forma della compensazione e cioè dell’ipotesi che il diritto regola prescrivendo che “quando due persone sono obbligate l'una verso l'altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti” (articolo 1241 del codice civile).

Nel nostro caso, il lavoratore ha, nei confronti dell’azienda, il credito derivante dalle retribuzioni e dal TFR, mentre l’azienda ha, nei confronti del lavoratore, il credito derivante dal danno da questi prodotto: le due poste possono quindi teoricamente compensarsi – cioè elidersi - fino alla concorrenza del valore del danno.

Come si vede, la caratteristica principale della compensazione è quella di risolversi in un accertamento del dare e dell’avere fra i due soggetti, accertamento al quale consegue il pareggio dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza. Pertanto, come abbiamo detto, nel rapporto di lavoro il credito dell’azienda per i danni prodotti dal suo dipendente si compensa con il credito del dipendente per retribuzioni (dirette o indirette) fino ad esaurimento del primo.

Ovviamente ci si chiede se vi siano limiti alla compensazione, soprattutto allorché il danno sia di rilevanti proporzioni, cioè sia in misura tale da pesare eccessivamente sulla busta paga se non, addirittura, da superarne il netto.

Sul punto si sarebbe portati a pensare che, trattandosi come abbiamo detto dell’istituto giuridico della “compensazione”, il datore di lavoro creditore potrebbe trattenere dalle retribuzioni del suo dipendente, di volta in volta, soltanto un quinto di esse, tale essendo il limite di aggredibilità fissato dall’articolo 545 del codice di procedura civile per i casi di pignoramento di “stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego”.

Sennonché, in tema, è intervenuta la Giurisprudenza, specificando che la compensazione fra il danno procurato dal lavoratore e il credito del lavoratore per retribuzioni dirette o indirette configura una compensazione “impropria” o “atecnica”, ciò che si verifica quando i rispettivi crediti e debiti nascono dallo stesso rapporto giuridico (in questo caso proprio quello lavorativo). In tale situazione non si applica la limitazione della pignorabilità del quinto dello stipendio, tanto che le contrapposte ragioni di credito delle Parti (entità del danno e stipendi) possono pareggiarsi fino all’intero valore del danno aziendale.

Anche su questo punto, però, è sempre necessaria la verifica di eventuali disposizioni del CCNL applicato in azienda: un esempio è tratto dal già citato articolo 18 del CCNL Chimici, là dove specifica che “Le trattenute per risarcimento danni devono essere rateizzate in modo che la retribuzione mensile non subisca riduzioni superiori al 10% del suo importo”.

Come si vede, non vi è una soluzione unitaria che risolva la problematica in esame. Certo è che, laddove non vi siano limiti prefigurati dai Contratti Collettivi e venga quindi consentito al datore di lavoro, se così ritiene, di rifarsi integralmente, anziché ratealmente, del danno subìto su quanto da lui dovuto al dipendente, se giuridicamente possibile, appare comunque una soluzione certamente gravosa e gravida di conseguenze e tale da portare facilmente alla soluzione del rapporto di lavoro con strascichi non indifferenti.

Approfondimento a cura di Roberto Sparpaglione.

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